La fase matura dell'innovazione sociale: dalla pratica all'impatto. Intervista a Flaviano Zandonai

La fase matura dell'innovazione sociale: dalla pratica all'impatto. Intervista a Flaviano Zandonai

Nei contesti territoriali, l’innovazione sociale non si manifesta più come un’eccezione episodica o come un esercizio sperimentale circoscritto, bensì come una presenza diffusa e talvolta discreta, impegnata nel tenere insieme bisogni, risorse e relazioni. Cooperative di comunità, reti di prossimità, spazi rigenerati e pratiche culturali condivise restituiscono l’immagine di un cambiamento già in atto, che oggi reclama tuttavia maggiore continuità, riconoscimento istituzionale e capacità di incidere oltre la dimensione locale.

È a partire da questa evidenza che si articola la riflessione di Flaviano Zandonai, sociologo ed esperto di impresa sociale e rigenerazione comunitaria, oggi open innovation manager del Consorzio Nazionale CGM. Uno sguardo che invita a considerare l’innovazione sociale non come una sequenza di soluzioni creative applicate a problemi circoscritti, ma come un processo in evoluzione, chiamato a produrre trasformazioni profonde e durature nelle comunità, negli assetti organizzativi e nei quadri di policy.

 

Dalla novità alla continuità del cambiamento

L’innovazione sociale nasce storicamente come risposta a problemi relativamente ben definiti, generando nel tempo un articolato repertorio di pratiche e sperimentazioni. Una fase espansiva che ha avuto il merito di catalizzare attenzione, ingaggio e apertura, coinvolgendo anche soggetti che non si riconoscevano inizialmente come portatori di innovazione. Oggi, tuttavia, quella spinta originaria mostra i propri limiti.

La sfida attuale non consiste nell’istituzionalizzare l’innovazione per cristallizzarla, bensì nel renderla capace di incidere in profondità. L’innovazione, di per sé, non coincide con l’impatto. Per diventarlo deve dotarsi di continuità, sistematicità e intenzionalità, dando forma a paradigmi di cambiamento in grado di sostenere la pressione delle sfide sociali e ambientali contemporanee. Non è l’ennesima soluzione sorprendente a risultare necessaria, quanto piuttosto la costruzione di traiettorie robuste, capaci di orientare le scelte nel tempo.

 


Dal “chi” al “noi”: la costruzione di ecosistemi

Osservato dal punto di vista degli attori, il campo dell’innovazione sociale appare ricco e articolato. Se guardiamo in particolare al contesto italiano, il Terzo Settore, l’economia sociale e le loro intersezioni con l’economia mainstream hanno dato origine a una pluralità di forme istituzionali che incorporano l’innovazione nella propria missione. A queste si affiancano reti territoriali e cluster di economia sociale di prossimità, nei quali soggetti pubblici, privati e non profit sperimentano nuove modalità di cooperazione.

La questione dirimente non riguarda tanto la presenza o la varietà di questi attori, quanto la loro capacità di agire come sistema. L’economia sociale si presenta oggi spesso come una sommatoria di identità e iniziative. La vera sfida risiede nella possibilità di trasformare questa pluralità in un “noi” dotato di massa critica, capace di incidere sulle dinamiche economiche e sociali più ampie. In assenza di tale dimensione collettiva, l’innovazione rischia di rimanere intrappolata in una logica di frammentazione.

Questa esigenza di integrazione si riflette nella progressiva trasformazione delle geografie territoriali. I confini amministrativi tradizionali mostrano una crescente inadeguatezza, mentre nuove configurazioni emergono a partire da processi istituzionali, organizzativi ed economici. Tuttavia, tali geografie rischiano di restare astrazioni formali se non riescono a intercettare bisogni, aspirazioni e risorse delle persone che abitano i territori.

Esperienze come le cooperative di comunità, in particolare nelle aree interne, stanno contribuendo a ridefinire in modo concreto queste nuove geografie, restituendo loro senso e operatività. Si tratta, tuttavia, di un percorso ancora incompiuto: senza un lavoro intenzionale di incarnazione territoriale, il rischio è quello di disporre di spazi potenzialmente ricchi ma scarsamente vissuti e poco valorizzati.

 

Fare rete attorno ai beni comuni

In questo scenario, il fare rete si configura come una leva decisiva, ma tutt’altro che scontata. Le reti risultano effettivamente generative solo quando riescono a organizzarsi attorno a una risorsa riconosciuta come bene comune, non soltanto dai soggetti che ne fanno parte, ma dall’intero contesto di riferimento.

Il lavoro di riconoscimento, condivisione e rigenerazione di tali risorse - materiali e immateriali - richiede cura, intenzionalità e la capacità di rinnovare costantemente il significato di ciò che tiene insieme la rete. In assenza di tale riconoscimento condiviso, le reti tendono a ridursi a dispositivi di scambio utilitaristico, perdendo la propria capacità trasformativa.

La valorizzazione dei beni comuni rinvia inevitabilmente alla dimensione culturale. Le risorse diventano tali nella misura in cui una comunità ne riconosce il valore, e questo riconoscimento è il prodotto di processi culturali profondi e stratificati. Negli ultimi anni, l’indebolimento di alcune basi culturali ha reso necessario un intervento di rigenerazione più intenzionale, spesso veicolato da pratiche concepite per ricostruire senso e appartenenza.

Non è casuale che una parte significativa della produzione culturale contemporanea assuma forme collettive e si dichiari esplicitamente orientata alla costruzione comunitaria. In questa prospettiva, la cultura si configura come atto politico, capace di fondare e rifondare identità condivise e di trasformare risorse latenti in autentici asset comunitari.

 

Ripensare l’impatto come questione di governance

Resta aperta la questione della sostenibilità e della crescita di tali processi. Numerose iniziative comunitarie generano valore simbolico e relazionale, ma faticano a consolidarsi nel tempo. In assenza di modelli economici adeguati e di infrastrutture di governance, il rischio è che queste esperienze rimangano fragili o vengano assorbite da logiche estrattive esterne.

Negli ultimi anni si osserva una crescente progettazione dei processi comunitari, accompagnata da strutture organizzative e gestionali più consapevoli. Se da un lato ciò comporta il rischio di una deriva tecnocratica, dall’altro apre la possibilità di elaborare nuovi modelli economici comunitari, capaci di tradurre l’energia sociale in lavoro, economia e impatto diffuso.

Anche il tema dell’impatto richiede un deciso mutamento di prospettiva. Gli strumenti tradizionali di misurazione, come l’analisi costi-benefici, faticano a restituire la complessità dei processi comunitari e delle interdipendenze che li caratterizzano. Più che una questione metodologica, la definizione dell’impatto si configura come una questione di governance.

Determinare cosa conti, come misurarlo e per chi farlo implica scelte di potere. Per questa ragione diventa necessario riequilibrare il rapporto tra chi finanzia, chi misura e chi genera quotidianamente valore, restituendo centralità agli attori direttamente coinvolti nei processi di cambiamento.

 

Tornare ai territori per fare sistema

Se l’innovazione sociale ambisce davvero a entrare in una fase di maturità, deve tornare ai territori senza restarne prigioniera. Le pratiche di prossimità, le reti comunitarie e gli ecosistemi locali costituiscono oggi il laboratorio più avanzato per ridefinire il significato stesso di impatto sociale. Affinché ciò avvenga, è però necessario che queste esperienze si riconoscano come parte di un progetto collettivo, capace di fare sistema e di incidere oltre la scala locale.

In questo passaggio si gioca una scelta cruciale: rimanere una costellazione di buone pratiche o divenire un’infrastruttura condivisa di cambiamento. È nei territori, nelle loro relazioni e nei loro beni comuni che questa scelta prende forma. Ed è da lì che può emergere una nuova idea di sviluppo, fondata non sull’eccezionalità dell’innovazione, ma sulla capacità, paziente e condivisa, di costruire futuro.

 

Ascolta il podcast o guarda il video qui sotto

 

 

Chi è Flaviano Zandonai? Sociologo, da oltre vent'anni svolge attività di ricerca applicata, formazione, consulenza e disseminazione nel campo dell’impresa sociale e del terzo settore. Attualmente è open innovation manager presso il Consorzio Nazionale CGM, dove gestisce programmi di interlocuzione e scambio tra imprese sociali e attori dell’innovazione tecnologica. Collabora con il magazine Vita e anima il blog Tempi Ibridi, dedicato all’innovazione istituzionale e alle nuove value chain tra profit e non profit. È coautore con Paolo Venturi di Spazio al desiderio, Neomutualismo, Dove. La dimensione di luogo che ricompone impresa e società, Imprese ibride. Modelli d'innovazione sociale per rigenerare valore, tutti editi da Egea.

 

Articolo a cura di Innovazione Sociale
Videointervista a cura di Antonella Tagliabue, UN-GURU

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