Colmare il gap digitale per un'Italia più equa e competente. Intervista a Martina Lascialfari
In Italia, meno della metà della popolazione possiede competenze digitali di base. Un dato che, al di là delle classifiche europee, racconta un problema strutturale profondo, che incide sulla possibilità di partecipare pienamente alla vita lavorativa, sociale e civica. In un contesto in cui la trasformazione digitale procede a ritmo incalzante, il rischio non è soltanto quello di restare indietro, ma di ampliare le disuguaglianze e rafforzare la marginalità di intere fasce di popolazione. È in questo scenario che nasce il Fondo per la Repubblica Digitale, un'alleanza tra pubblico e privato sociale per promuovere un’innovazione digitale equa, accessibile e inclusiva.
Abbiamo incontrato Martina Lascialfari, Direttrice Generale del Fondo, per approfondire obiettivi, risultati e visione strategica di un’esperienza che, in breve tempo, ha già fatto scuola.
Un laboratorio pubblico-privato per l’inclusione digitale
Il Fondo per la Repubblica Digitale è il frutto di una partnership tra il Governo e Acri, l'Associazione di Fondazioni e di Casse di risparmio. Avviato nel 2021 e operativo dal 2022, si configura come impresa sociale con una missione precisa: ridurre il gap di competenze digitali in Italia, agendo sulle fasce più vulnerabili della popolazione.
Secondo gli ultimi dati del DESI (Digital Economy and Society Index), l’Italia si colloca al 23° posto su 27 Paesi UE per competenze digitali di base, con solo il 46% della popolazione in grado di affrontare la quotidianità digitale, a fronte di una media europea del 54%.
“La trasformazione digitale non deve travolgere le persone – spiega Lascialfari – ma rappresentare un’opportunità per tutti. Per questo lavoriamo con bandi dedicati a giovani NEET, donne, disoccupati, lavoratori a rischio di demansionamento, studenti, collaboratori e volontari del Terzo Settore, detenuti e cittadini in generale”. Un progetto ambizioso, che unisce visione pubblica e capacità operativa privata, e che in pochi anni ha dato vita a una rete di interventi articolati e mirati, destinati a chi rischia maggiormente di restare escluso dai processi di innovazione. Non si tratta solo di promuovere l’alfabetizzazione tecnologica, ma di riconoscere le competenze digitali come uno strumento abilitante, un presupposto necessario per accedere al mercato del lavoro, fruire dei servizi pubblici, partecipare alla vita democratica. In sintesi, per essere cittadini a pieno titolo.
Un modello innovativo: governance duale e valutazione d’impatto
Dalla sua istituzione, il Fondo ha avviato un percorso che combina selezione progettuale, misurazione dell’impatto e accompagnamento dei soggetti attuatori, con l’obiettivo di generare interventi concreti e scalabili.
Il modello organizzativo si fonda su una governance duale, che unisce rappresentanti del Governo e delle Fondazioni di origine bancaria in un comitato strategico. La gestione quotidiana è affidata all’impresa sociale, che opera secondo principi privatistici, in un equilibrio virtuoso tra efficacia esecutiva e legittimazione pubblica. Questo assetto consente di agire con tempestività, trasparenza e imparzialità, mettendo in campo un’architettura solida ma agile.
Il lavoro si articola in due fasi: una fase di sperimentazione, che ha permesso di testare soluzioni formative inedite e misurarne l’impatto, e una fase di scale-up, attualmente in corso, volta a espandere i progetti più efficaci su scala più ampia.
Nei primi tre anni di attività, il Fondo ha pubblicato 10 bandi, raccogliendo 1.757 proposte progettuali e finanziandone 135, per un investimento complessivo di circa 69 milioni di euro. I progetti selezionati hanno l’obiettivo di accompagnare oltre 77.000 persone in percorsi di formazione e, laddove possibile, di inserimento lavorativo. Il 95% delle persone coinvolte nei primi 34 progetti conclusi ha completato il proprio percorso formativo, segno di una risposta concreta ai bisogni individuati. La valutazione dei risultati occupazionali è in corso, ma già oggi emerge un primo dato importante: il modello del Pay-for-Performance – che prevede l’erogazione di parte del contributo solo al raggiungimento degli obiettivi formativi e occupazionali – ha introdotto un meccanismo di responsabilizzazione condivisa che innalza la qualità dell’impatto generato.
La misurazione dell’impatto, d’altra parte, non è relegata a una rendicontazione postuma. Fin dalla fase di selezione, i progetti vengono valutati ex ante attraverso un processo accurato che coinvolge professionisti interni ed esperti indipendenti. Durante la fase di attuazione, il Fondo esercita un ruolo di accompagnamento attivo, con l’obiettivo di sostenere gli enti beneficiari nella gestione di eventuali criticità.
L’inclusione digitale come leva di cittadinanza
Ma cosa significa realmente “inclusione digitale”?
“Significa – chiarisce Lascialfari – mettere le persone nelle condizioni di partecipare attivamente alla società, accedere ai servizi digitali, trovare un lavoro dignitoso o migliorare la propria posizione lavorativa. Le competenze digitali sono uno strumento di emancipazione”.
La situazione è allarmante: 1,3 milioni di NEET in Italia - circa il 16 % della popolazione giovanile, con punte del 20% nel Sud; oltre 12 milioni di inattivi, persone in età lavorativa che non cercano lavoro; poco più di una donna su due è occupata stabilmente. Le imprese non riescono a trovare quasi 100.000 profili tecnici qualificati, in settori strategici come l’AI, la cybersicurezza o la gestione dei dati. Un mismatch occupazionale da 44 miliardi di euro l’anno.
In questo scenario, la digitalizzazione può diventare per molti una porta d’accesso, una leva per rientrare nel circuito produttivo e sociale. Il Fondo ha dunque l’ambizione di orientare le politiche pubbliche, portando all’attenzione del decisore quei modelli progettuali che dimostrano di funzionare e di generare impatto su larga scala. Dopo una prima fase di sperimentazione, è infatti in corso una seconda fase – di scale-up – che prevede il consolidamento e l’ampliamento dei progetti più efficaci, con l’intento di trasformare esperienze locali in soluzioni sistemiche.
Guardando avanti: AI, cofinanziamento e bandi scale-up
In particolare, l’intelligenza artificiale è al centro delle prossime sfide. Secondo il World Economic Forum, entro il 2027 in Italia potrebbero sparire 2 milioni di posti di lavoro, ma se ne creeranno 3 milioni di nuovi, spesso ad alto contenuto tecnologico.
In questa direzione si muove il bando vIvA, nato da una collaborazione con Google.org: un’iniziativa congiunta per finanziare progetti di formazione in ambito intelligenza artificiale, con un focus particolare sul Made in Italy e sulle categorie più vulnerabili. Al contributo di 1,5 milioni di euro messo a disposizione da Google.org, il Fondo ha aggiunto una somma equivalente, portando il totale a 2,6 milioni. In poche settimane, sono arrivate 208 proposte, a dimostrazione di un fermento reale nel Paese rispetto alle competenze emergenti e alla necessità di governare l’impatto dell’AI con strumenti formativi adeguati.
Questa esperienza ha aperto la strada a un canale di cofinanziamento, attivo fino al 31 dicembre 2025, che consente a enti del Terzo Settore di proporre progetti anche al di fuori dei bandi standard, a condizione che siano in grado di coprire almeno il 50% del budget complessivo. Il Fondo, valutato l’interesse strategico del progetto, si impegna a integrare le risorse mancanti. È una modalità che consente di valorizzare anche esperienze di realtà più piccole, fortemente radicate nei territori, che magari operano con target ancora poco intercettati dalle call ufficiali, ma che possono generare impatti significativi in contesti specifici.
Parallelamente, sono appena stati lanciati i bandi Futura+ e Onlife+ , rivolti rispettivamente a donne e NEET, per espandere progetti già testati con successo.
La cultura dell’impatto e la forza della rete
Il valore generato dal Fondo non risiede solo nelle risorse distribuite, ma nella capacità di fare rete. Il Terzo Settore è spesso il primo a intercettare i bisogni reali delle persone; le università e gli enti pubblici offrono contenuti di qualità e credibilità istituzionale; le imprese si dimostrano “antenne” sensibili all’innovazione, contribuendo con competenze e strumenti aggiornati ad assicurare che la formazione erogata sia concretamente spendibile nel mercato del lavoro.
Questo intreccio di ruoli e competenze crea una struttura inedita e generativa, capace di tradurre la formazione in reale crescita professionale e sociale. L’impressione che si ricava è quella di un ecosistema vivo, in cui l’innovazione tecnologica si declina in prossimità e responsabilità sociale.
Nel tempo delle trasformazioni rapide e della corsa alla competitività, il lavoro del Fondo per la Repubblica Digitale suggerisce che la vera sfida non è quella di accelerare il passo, ma di far sì che nessuno resti indietro nel percorso. Perché in un’epoca in cui le tecnologie cambiano il mondo, l’inclusione è la condizione per renderlo migliore.
Ascolta il podcast o guarda il video qui sotto
Chi è Martina Lascialfari? Classe 1986, è nata e cresciuta a Firenze, dove ha studiato Scienze Politiche specializzandosi in Studi Europei. Gli anni dell’università sono stati arricchiti da due importanti esperienze formative all’estero: un anno accademico in Erasmus presso l’University College London e uno stage al Parlamento Europeo come assistente parlamentare. Nel 2015 ha iniziato a occuparsi di innovazione sociale, appassionandosi all’ambito dell’educazione digitale, al servizio delle persone e delle comunità. Oggi riveste il ruolo di Direttrice Generale del Fondo per la Repubblica Digitale.
Articolo a cura di Innovazione Sociale
Videointervista a cura di Antonella Tagliabue, UN-GURU
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