La vita contro l’entropia: la lezione di Stefano Mancuso sulla fragilità del Pianeta
Testo a cura di Antonella Tagliabue, UN-GURU
"La vita è un fenomeno raro nell’universo", afferma Stefano Mancuso, neurobiologo vegetale e direttore del Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale dell’Università di Firenze.
Una constatazione tanto semplice quanto sconvolgente, se ci si sofferma a pensare che l’intero universo osservabile — centinaia di miliardi di galassie, ognuna con miliardi di stelle — sembra quasi del tutto privo di ciò che noi chiamiamo vita.
In occasione della lectio magistralis tenutasi il 10 novembre a Como per iniziativa della Rete Lariana per la Transizione Sostenibile (promossa dalla Camera di Commercio di Como-Lecco) e aperta alla partecipazione di oltre 300 ragazzi delle scuole superiori, il prof. Mancuso ha spiegato come, sulla Terra, questo miracolo chiamato vita prenda forma in una fascia sottilissima, un velo vivente che avvolge il pianeta come una pelle: la biosfera. È uno strato di appena venti chilometri, che si estende da circa dieci chilometri sotto la superficie, fino a dieci chilometri sopra il livello del mare.
In questa sottile pellicola si trova tutta la vita conosciuta, e addirittura il 97% di essa è concentrata nei soli cinque chilometri più prossimi alla superficie. È qui che si intrecciano le relazioni invisibili che rendono possibile la sopravvivenza di ogni specie.
La nostra illusione di centralità
In questo equilibrio millenario, l’essere umano rappresenta un frammento minuscolo. Secondo uno studio pubblicato nel 2018 su Proceedings of the National Academy of Sciences, se si sommasse tutta la biomassa del pianeta — cioè il peso di ogni forma vivente — il quadro sarebbe il seguente:
- le piante costituiscono circa l’87% della biomassa;
- i batteri rappresentano un altro 13%;
- tutti gli animali, compresi noi, solo lo 0,3%;
- e, all'interno di questo 0,3%, l’umanità pesa appena lo 0,0006% del totale.
"Non è vero che siamo troppi", ironizza Mancuso. "Siamo pochi, ma molto dannosi". È una verità scomoda: la nostra irrilevanza biologica contrasta con la nostra immensa impronta ecologica. Abbiamo alterato il clima, modificato la composizione chimica dell’atmosfera, avvelenato gli oceani, spinto migliaia di specie verso l’estinzione. In appena due secoli di industrializzazione abbiamo inciso sulla Terra quanto nessuna specie aveva mai fatto in miliardi di anni. Non siamo, come spesso amiamo credere, i custodi del Pianeta: siamo gli unici inquilini che distruggono la propria casa mentre ci abitano.
Nell’universo tutto tende al disordine. È la legge dell’entropia, descritta dal secondo principio della termodinamica: ogni sistema isolato tende a perdere energia utile, a uniformarsi, a spegnersi.
Eppure la vita rappresenta l’eccezione a questa regola. Ogni cellula vivente si oppone all’entropia, assorbe energia e la trasforma in ordine: struttura, informazione, cooperazione. "Mentre l’universo scivola verso il caos", spiega Mancuso, "la vita va nella direzione opposta". È come se l’esistenza stessa fosse una ribellione fisica contro il destino di morte termica dell’universo. Un movimento costante verso la complessità, la relazione e la coscienza.
Il Dasgupta Report: un’economia senza natura
Eppure, questa straordinaria rete vivente si trova oggi in pericolo. Il Dasgupta Review on the Economics of Biodiversity [1-2], pubblicato nel 2021 per conto del governo britannico, lancia un avvertimento severo: la nostra prosperità dipende dalla natura, ma la trattiamo come se fosse infinitamente rimpiazzabile.
Il documento calcola che, in termini di capitale naturale, stiamo consumando risorse ecologiche a un ritmo 1,6 volte superiore a quello con cui la Terra riesce a rigenerarle. In altre parole, viviamo a credito rispetto alla vita stessa.
La biodiversità, continua il rapporto, è il più grande patrimonio economico del Pianeta, anche se non appare nei bilanci delle nazioni. È l’invisibile infrastruttura che regola i cicli dell’acqua, del carbonio, dell’azoto; che impollina, depura, rigenera. Eppure, la stiamo erodendo pezzo dopo pezzo.
Uno dei segni più evidenti di questa erosione è la scomparsa delle foreste. Secondo la FAO, dal 1960 a oggi il mondo ha perso più di 420 milioni di ettari di foreste — un’area superiore all’intera Unione Europea. Ogni minuto scompaiono, in media, l’equivalente di 27 campi da calcio di alberi.
Resta un’unica, immensa riserva di foresta primaria: l’Amazzonia. In un solo metro quadrato di foresta amazzonica si possono trovare migliaia di specie di insetti, funghi, piante e microrganismi che cooperano in un equilibrio delicatissimo.
Ma, secondo gli ultimi dati dell’INPE (l'Istituto nazionale di ricerche spaziali del Brasile), oltre il 20% dell’Amazzonia è già stato distrutto o degradato. Se la deforestazione dovesse proseguire al ritmo attuale, entro cinque anni la foresta potrebbe raggiungere il punto di non ritorno, trasformandosi progressivamente in savana e smettendo di assorbire anidride carbonica. Questo significherebbe un collasso climatico globale, perché l’Amazzonia è una delle più grandi riserve di carbonio della Terra e regola la circolazione atmosferica di tutto l’emisfero meridionale.

Stefano Mancuso
L’era della scomparsa
Secondo il Living Planet Report 2024 [3] del WWF, le popolazioni di vertebrati selvatici — mammiferi, uccelli, pesci, anfibi e rettili — sono diminuite in media del 69% dal 1970.
Non si tratta solo di singole estinzioni: stanno scomparendo interi ordini zoologici, e con essi ecosistemi, catene alimentari, equilibri millenari. Gli insetti impollinatori, ad esempio, sono in calo del 40%; le api, responsabili del 75% delle colture alimentari, stanno scomparendo a causa dei pesticidi e del riscaldamento globale. Ogni perdita è una ferita invisibile che impoverisce la vita di tutti.
Eppure, la consapevolezza di ciò che stiamo facendo al clima non è recente.
Già nel 1846, la statunitense Eunice Newton Foote, scienziata autodidatta e attivista per i diritti delle donne, condusse un esperimento pionieristico. Riempì due cilindri di vetro: uno con aria normale, l’altro con anidride carbonica. Li espose al sole e misurò la temperatura interna. Scoprì che il cilindro con CO₂ si scaldava molto più rapidamente e tratteneva più calore. Nel 1856, in una breve comunicazione all’American Association for the Advancement of Science, scrisse: “Un’atmosfera contenente una maggiore proporzione di anidride carbonica renderebbe la Terra più calda.”
Era la prima descrizione dell’effetto serra.
Tuttavia, la sua scoperta fu ignorata per oltre un secolo — probabilmente anche perché Foote era una donna in un mondo scientifico dominato dagli uomini. Solo oggi la sua intuizione viene pienamente riconosciuta come la prima pietra della scienza climatica.
Quando 1,5 gradi cambiano tutto
L’aumento della temperatura media globale di 1,5°C rispetto all’era preindustriale non è una semplice variazione termica: è una rivoluzione fisica e chimica.
A quel punto, soglie fondamentali vengono superate: i ghiacciai si sciolgono, i mari si acidificano, le correnti oceaniche rallentano, il ciclo dell’acqua si altera. Anche le reazioni biochimiche cambiano: gli enzimi, alla base di ogni processo vitale, lavorano solo in intervalli di temperatura ristretti.
Superata quella soglia, la vita — soprattutto quella marina e vegetale — non funziona più come l’abbiamo sempre conosciuta.
Una crisi tutta nostra, e quindi risolvibile
Di fronte a questo scenario, Mancuso non cede al pessimismo. "Per fortuna è colpa nostra", dice con un sorriso amaro, "perché se fosse colpa del Sole o dell’universo non potremmo farci nulla. Ma essendo colpa nostra, possiamo ancora cambiare".
La vita ha un’eccezionale capacità di rigenerarsi, purché le si lasci spazio e tempo. Le foreste possono ricrescere, le specie possono ripopolarsi, il clima può stabilizzarsi — ma solo se l’uomo sceglierà di ridurre il proprio impatto e di ricucire il legame spezzato con la Natura. Serve una trasformazione culturale profonda: passare da una visione antropocentrica a una visione biocentrica, in cui la vita — tutta la vita — sia il valore supremo.
Guardando dall’alto, la biosfera appare come un sottile bagliore azzurro che avvolge il nostro Pianeta. È il respiro della Terra. In quel fragile alone c’è tutto: il passato e il futuro, l’origine e la speranza. Ogni albero, ogni insetto, ogni essere umano è un battito di quel respiro comune.
Capire questo — dice Mancuso — significa finalmente capire che la vita non ci appartiene: siamo noi ad appartenere a lei.
Fonti:
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